Ciane fra antichità e modernità

Non ho scelto di essere un fiume, è stato Ade ad impormelo.

Quello poteva essere un giorno qualunque e io sarei potuta rimanere una ninfa terrestre ancora oggi se non avessi udito i nitriti dei cavalli di Ade. Stavano correndo all’impazzata trasportando sul carro Persefone, figlia di Demetra, la mia padrona. Ella urlava ed invocava aiuto ma in tutte le terre che avevano percorso solo io accolsi la sua richiesta: m’aggrappai al carro del Signore dei Morti il quale infuriato mi percosse col suo scettro e mi trasformò in fonte. Allora Anapo che di me era innamorato pregò gli dei affinché gli serbassero la stessa sorte.

Spesso penso a quel giorno e a come abbia cambiato radicalmente l’eterno fluire della mia vita. Da tempo non mi allontano dal fiume che mi tiene in vita e non so come si sia sviluppata la mia amata Siracusa. Presa dalla curiosità, vado.

L’acqua che fluisce dai miei fianchi, l’erba fresca sotto i piedi, da tempo non provavo queste sensazioni. Da quando sono stata trasformata in fiume la terra mi è sempre stata estranea, ma questa volta la sensazione mi pare nuova: è un terreno grigio, compatto e caldo, con delle strisce bianche dipinte al centro; sembra pietra ma non so se lo sia, la chiamano strada.

Saranno passati circa cinque minuti da quando ho iniziato a percorrere questa strana via quando ad un certo punto odo un verso inusuale provenire da dietro. Mi giro, e giuro di non aver mai visto mostro dall’aspetto più curioso! Il terrore m’assale e non ho il tempo di fuggire tanto è veloce, ma non ce n’è bisogno: dopo aver emesso suoni che mai avevo udito si scansa e continua la sua imperturbabile corsa. Sembra la chiamino automobile. Scossa e tremante continuo la mia escursione.

Oltrepassata la vista di edifici che mai i miei occhi avevano incontrato, noto due colonne a me familiari. Mi avvicino, lo riconosco, è il tempio di Zeus. Solo due colonne ne sono rimaste, tra le tante solo quelle due hanno assistito alla morte delle sorelle, distrutte da una coppia di contadini ignoranti della sacralità del luogo. M’allontano, cammino per non so quanto tempo e osservo i cambiamenti della mia città. Costruzioni che non avevo mai visto, rumori mai sentiti e individui dai costumi davvero inusuali. Tuttavia c’è una parte di Siracusa che è di poco cambiata rispetto al passato; ormai quei luoghi sono diroccati, distrutti e tuttavia non sono abbandonati: ora vedo il teatro, il più grande della Magna Grecia. Ricordo gli spettacoli che vi erano rappresentati e colui che li permise, ovvero Damocopos, detto Myrilla per aver fatto spargere unguenti all’inaugurazione.  Eschilo vi rappresentò “Le Etnee” attraverso le quali rividi le gesta successive alla distruzione di Katane che venne rifondata col nome di Aitna.Senza accorgermene, arrivo all’Anfiteatro Romano: dell’arco che vi era all’entrata rimangono solo due piloni, della fontana che vi era di fronte non ne rimane traccia. Ormai è praticamente distrutto, rimangono alcune gradinate, l’arena centrale e poco altro. Non mi erano mai piaciuti gli spettacoli che lì prendevano forma; erano troppo violenti e l’unica volta che ci andai, la sera sognai di essere uno di quei poveracci, condannati a uccidere per compiacere i potenti e il popolo.

Quel trucolento ricordo mi spinge a fuggire da quel luogo, così, spaesata mi ritrovo all’interno di una strana carrozza.

Vi ero salita, in preda ai ricordi e alla confusione, seguendo un gruppo di persone stranamente agghindate; non m’ero accorta ch’essa non era altro che la copia di maggiori dimensioni di ciò che m’ aveva precedentemente aggredito. In seguito ho saputo che lo chiamano autobus.

Mi trovo immersa in un tripudio di uomini, donne e bambini, i cui occhi sembrano fissar soltanto me. Finalmente riesco a scendere, inizio a vagare. Non so più come orientarmi, questa non è più la città dove vivevo un tempo. Scorgo un ponte e stranamente riconosco Ortigia. Ecco l’Apollónion, quasi completamente distrutto. Fu multiforme, da tempio dorico divenne chiesa bizantina, moschea araba e caserma borbonica; fu così che lo lasciai e  lo ritrovo di nuovo tempio.

Nonostante mi guardino tutti, mi inginocchio e prego il Febo Apollo.

Risalgo una larga via, percorsa da una moltitudine di gente; al culminare della strada s’apre una larga piazza con al centro una fontana, con orgoglio constato che almeno alla Signora della caccia è stato riservato un posto d’onore in questa città.

M’allontano dalla fontana di Diana e dopo alcuni minuti mi ritrovo davanti alle doriche colonne del tempio d’Atena. Ora è molto mutato, le colonne non sono che poche rispetto al passato, statue adornano l’entrata principale e merlature corrono lungo il tetto, da dentro proviene il suono di alcune campane. Poco più in là riconosco la dimora di un’illustre compagna: Aretusa.

Triste è la sua storia, simile in parte alla mia.

Costeggio il mare e osservo gli scogli quadrati pensando alla persona che andrò a visitare: Maniace, non era un greco, né un siracusano, veniva dalla Macedonia, ma era al servizio di Bisanzio, e proprio per l’imperatore di Bisanzio conquistò la Sicilia e quindi Siracusa.

Era alto e scuro di pelle, e nonostante fosse cieco a un occhio era un ottimo comandante e un ottimo soldato. Fu ucciso dal suo stesso imperatore perché aveva conquistato il cuore dei siciliani.

Ora il suo spirito si agita tra le mura del castello  a lui intitolato.

Qui termina il mio viaggio lungo la mia città e con esso il mio racconto. Da lontano, sul ponte che collega il castello al resto dell’isola, scorgo balenare fra la distesa azzurra del mare, le dolci acque di Anapo, il mio amore…Il bronzo d’Archimede osservava il cielo di Siracusa tingersi di rosso e il sole tuffarsi in acqua; ecco, una nave da crociera, colosso dei mari entrare nel porto e scaricare l’uomo moderno, così diverso dalla ninfa Ciane.

Daniele Calcina, Simone Giannone, a. s. 2016/2017

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