Scomparsa o uccisa? Il caso di Emanuela Orlandi. Terza parte

Era il 3 luglio del 1983, esattamente 12 giorni dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi. 

Papa Giovanni Paolo II, durante l’Angelus, pronunciò alcune parole sulla scomparsa di Emanuela, mostrando totale appoggio e vicinanza alla famiglia. Nonostante ciò, alcune parti del discorso non risuonarono piacevoli alle orecchie di tutti. “Mi rivolgo a coloro i quali hanno la responsabilità di questo caso”. Questa frase inizialmente suonò non poco ambigua e suscitò in molti il dubbio che lui fosse in realtà a conoscenza, in qualche modo, del fatto che Emanuela fosse stata rapita. Un’altra frase “Spero che ritorni dalla sua famiglia”, faceva così intendere che sapesse che lei fosse viva, suscitando, così, ancora più dubbi.

Dopo due giorni dall’appello del Papa, a casa Orlandi arrivò una telefonata anonima da un uomo con accento straniero, soprannominato successivamente “l’Americano”.

Quest’ultimo, durante la telefonata, fece ascoltare una registrazione, in cui si sentiva la voce di una ragazza che diceva: “scuola Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II. Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II”, ripetendo questa frase svariate volte. Recita ancora: “Dovrei fare il terzo liceo tra un anno, scientifico”. La voce venne subito identificata dalla famiglia come quella di Emanuela. Successivamente l’Americano disse che Mario e Pierluigi, che avevano già chiamato in precedenza, facevano parte del suo gruppo, confermando, così, il loro legame con la vicenda. Alla fine della chiamata l’Americano fissò un ultimatum per il 20 luglio, affermando che avrebbe ucciso Emanuela se le autorità italiane non avessero rilasciato Mehmet Ali Agca. Mehmet era ben noto, e non solo in Italia, in quanto aveva tentato di assassinare il Papa nel maggio del 1981 con due colpi di pistola, ma, non essendoci riuscito,  era stato catturato e arrestato.

A 15 giorni dalla scadenza dell’ultimatum, la famiglia ricevette un’altra chiamata, che informava di aver rivelato all’ANSA di andare a cercare in un cestino della spazzatura in Piazza del Parlamento, dove avrebbero trovato un pacco con le prove che la ragazza fosse realmente nelle loro mani. All’interno fu trovata la fotocopia della tessera di musica di Emanuela, il pagamento di una retta e infine un biglietto presumibilmente scritto da lei: “Con tanto affetto, la vostra Emanuela”. La famiglia riconobbe subito la sua grafia, a detta del fratello Pietro inconfondibile. In realtà queste prove non dimostravano che lei fosse viva, bensì solo che i sequestratori avessero modo di accedere agli effetti personali di Emanuela. Dopo uno studio approfondito della grafia, si scoprì che essa non riportava varianti psicologiche, come se il biglietto fosse stato scritto durante un momento di paura, terrore o eccitazione. 

A 3 giorni dalla scadenza dell’ultimatum arrivò una seconda telefonata all’ANSA, in cui l’Americano disse che avrebbe fornito un’ulteriore prova, reperibile in un cestino della spazzatura in via della Dataria. Stavolta al suo interno fu trovata un’audiocassetta: da una parte si citava la richiesta di scambio da parte dei rapitori, dall’altra parte vi era un messaggio a dir poco terrificante di una voce femminile ansimante che diceva ad alta voce “Dio, perché? Che male. Ahia”. Si suppose che fosse proprio la voce di Emanuela, la quale stava subendo qualche forma di sevizia; tale supposizione fu dopo smentita, in quanto la voce registrata era tratta da un film.

Arrivò il 20 luglio. Era l’ultimo giorno dell’ultimatum e l’Americano chiamò nuovamente, ma non la famiglia: si rivolse a una Chiesa di Roma verso le 10.30, informando che restavano ormai poche ore prima che uccidessero Emanuela. Nonostante ciò, lo scambio non avvenne dato che Mehmet Ali Agca non fu rilasciato. A questo punto i rapitori capirono che non lo avrebbero riottenuto e si attese una nuova richiesta, avanzata proprio da loro, con un nuovo ultimatum.

Continua….

Marika Santoro, Gaia Petrolito, Christian Milani, Sara Ricupero 5As

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