“Arbeit macht frei”: il lavoro rende liberi

Il 1° Novembre 2005 fu stabilito, da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, di celebrare il “Giorno della Memoria” il 27 gennaio di ogni anno come giornata per commemorare le vittime della Shoah, perché in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. In questa ricorrenza, vengono ricordate circa 15-17 milioni di vittime, uccise da parte della Germania nazista, con l’intento di sterminare ogni razza inferiore a quella ariana. Tra il 1933 e il 1945, si stima che persero la vita: ebrei (6 milioni), rom (200/300 mila), disabili (250 mila), slavi, tra cui russi, ucraini, serbi, polacchi e sloveni, (7/8 milioni), dissidenti politici (1,5/2 milioni), omosessuali (15 mila). “Solo” 1/1,5 milioni di innocenti vite persero la vita ad Auschwitz e ai pochi superstiti restò impressa una frase: “Arbeit macht frei“, ovvero “il lavoro rende liberi”. Essa riassumeva, in modo beffardo, la menzogna dei campi di concentramento, nei quali i lavori forzati, la condizione disumana di privazione dei prigionieri e solitamente il destino finale di morte contrastavano con il significato del motto stesso. Curiosa è la presenza  della lettera “B” della parola “Arbeit” posta volutamente sottosopra, che allude al desiderio di libertà e restaurazione della dignità dell’uomo, quando tutto intorno è precipitato nell’abisso della morte. Tale gesto di ribellione intellettuale assunse un forte valore simbolico solo molti anni dopo, sino ad essere rappresentato in forma di statua nel 2014 di fronte alla sede del Parlamento europeo a Bruxelles.

I pochi superstiti, negli anni successivi, cercarono di testimoniare e documentare le proprie storie personali, tutte accomunate dalla malinconia e da quel senso di profonda solitudine interiore, provocati dall’esser stati testimoni di scene indimenticabili. Tra questi, la testimonianza di Benjamin Capon, ebreo greco, nato a Salonicco:

“Inizialmente, mi trovavo con la mia famiglia in un convoglio, insieme a 2500 persone. Entrammo nel campo in 600, gli altri andarono nelle camere a gas, tra loro mia madre. Birkenau era il campo della morte. Ogni giorno c’era una selezione: non potevamo nutrirci e quelli che erano troppo magri finivano nel crematorio. Mio padre mi dava il suo pane per farmi mangiare, ma non  eravamo più uomini. Avevo un cugino che era stato selezionato per diventare un sonderkommando, per lavorare al crematorio. Dopo un po’ di tempo lo incontrai e lui mi disse: “Questa è l’ultima volta che ci vediamo perché domani finirò al crematorio”. I tedeschi non lasciavano in vita coloro che lavoravano al crematorio dato che erano a conoscenza di ciò che accadeva lì. Dopo 3 o 4 mesi li dovevano uccidere. Da allora, non l’ho più visto. Credo che la mia liberazione derivi dalla fortuna. C’è chi è disposto a perdonare, chi invece no. Io posso perdonare, ma con il cuore freddo.”

Su questa straziante sconfitta per l’umanità, oggi viene spesso sollevata la questione sul perché i civili tedeschi non abbiano agito diversamente fra il 1933 ed il 1945, sollevandosi contro i crimini di guerra nazisti. Dobbiamo immaginarci un mondo completamente diverso, che non si può paragonare a quello di oggi. Per mezzo della televisione oggi ognuno è rapidamente informato su quello che succede in tutto il mondo. Atteggiamenti che si affermano negli Stati Uniti si riscontrano ben presto anche in Europa. In quel periodo, non esisteva una stampa indipendente ed il programma radiofonico era diretto esclusivamente dal Ministero della Propaganda (Goebbels come ministro). La fiducia che il popolo tedesco riponeva in Hitler era enorme e apparentemente egli riusciva a fare miracoli. La disoccupazione diminuiva, nessuno doveva più patire il freddo e la fame e si instaurava un sentimento di appartenenza. La parola d’ordine era: “Uno per tutti, tutti per uno.” In soli 6 anni fino allo scoppio della guerra si assistette ad una costante ascesa del regime. Anche l’estero era sbalordito per i successi di Hitler. L’esistenza dei campi di concentramento era localmente nota, ma si credeva che si trattasse di luoghi per colpevoli di delitti gravi, ad esempio di tipo sessuale. Non era risaputo che lì erano rinchiusi anche dissidenti del regime, per esempio, quindi prigionieri politici. Completamente ignoto era il fatto che esistessero campi di sterminio, come ad esempio Auschwitz. Nessuno aveva la minima idea dell’uccisione di bambini, donne, vecchi, malati o interi popoli nelle camere a gas. Si raccontava che gli ebrei, che scomparivano da Berlino, venissero sistemati in una particolare riserva nell’Est, dove avrebbero lavorato come agricoltori, e per questo venissero portati lì con convogli. Soltanto una percentuale ristretta di tedeschi era informata di questi luoghi: erano coloro che erano a loro volta perseguitati e pochi di questi riuscirono ad emigrare verso stati quali la Gran Bretagna, gli Usa o la Palestina.

Francesco Trombatore IV H

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